Giovanni Cabassi
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Questo sito è un diario, un album di figurine,
un libro di racconti.

E’ il caricatore di diapositive che avanza a scatti nel buio col sottofondo di Wish You Were Here…

Buona lettura,

UNA BELLISSIMA AVVENTURA

Milano, 19 gennaio 2021.

Sono le 6.10 della mattina, fuori è buio pesto e ci sono 0,1 gradi di freddo.

Nel letto mi giravo e rigiravo come una trottola, i pensieri s’inseguivano in quel modo scomposto e disordinato che non riesci più a stargli dietro.
Parole Immagini Attimi Ricordi Progetti.
Da ieri ho un nuovo sito.
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Vergine.
Intonso.
Immacolato.
Detto così sembra del tutto normale che nel 2021 uno abbia un proprio luogo virtuale.
Non così scontato per me.

Sono di fatto sbagliato in un mucchio di cose, ma il mondo del social e della moderna comunicazione digitale si ritaglia un posto di grande privilegio nella mia classifica delle cose che stentano a essere positive.
Devo cambiare qualcosa nel profondo del mio essere assurdamente analogico, vintage, ossessivamente retrò.
Mi faccio un caffè. Con la Moka.
Un sito è un luogo. Parto da qui per questa bellissima avventura che mi va di raccontare per scritti e per immagini cercando di cucirmi addosso un me stesso visto attraverso gli occhi retroilluminati di uno schermo da ventisette pollici.
Un diario (caro diario?), un album di figurine, un libro di racconti, uno specchio che ci vede benissimo, è il caricatore delle diapositive che avanza a scatti nel buio della sala col sottofondo musicale di Wish You Were Here.
Abbandono il menu a tendina -ma magari poi scopro che non ne posso fare a meno- e mischio le carte: i ritratti si paleseranno al momento opportuno così come le campagne pubblicitarie e i paesaggi, i momenti della mia vita per immagini troveranno la propria giusta sistemazione e l’attimo preciso per mostrarsi.
Ma torniamo indietro a un’ora fa quando mi dibattevo fra il cuscino e i capelli di Elena, con la mente che scorreva anni e frasi e fotografie in un avanti/indietro di cronologia da capogiro.
Quindi: se devo ricondurre il tutto a una sequenza, DEVO fare ordine innanzitutto nei miei ricordi, poi associarli alle immagini e raccontare un racconto.
Che mi deve anche divertire sennò non ha senso.

COMINCIAMO

Allora comincio dal principio, e mi vedo ragazzino di circa dodici anni (quindi doveva essere l’estate del 1969), che aprendo un armadio dei miei genitori, vengo ipnotizzato da due oggetti sconosciuti e affascinanti: una Leica M3 e una Rolleiflex 2.8, entrambe racchiuse nella loro lucida e odorosa custodia di cuoio marrone. Tutto nuovo e inutilizzato.

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Regali di matrimonio, immagino.

Chiesto e ottenuto l’uso degli oggetti misteriosi, scatto a vuoto come un forsennato per almeno un anno. Mi piace osservare il mondo attraverso un mirino ed è magia pura l’immagine che si forma sul vetro smerigliato, e il rumore morbido dell’otturatore che si chiude, e la meraviglia meccanica di un oggetto che può catturare la luce.

Poi mi vedo assorbire il mensile Fotografare di Cesco Ciapanna come fosse un vero libro di studio e mi ritrovo, qualche anno più tardi a passare le lunghe notti in collegio a Paderno del Grappa, anziché a letto, indaffarato a rimettere in sesto e usare una camera oscura abbandonata da anni.

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E’ un mondo che sento mio e non m’intimidisce più di tanto, anche se mi scoccia assai vedere la quantità enorme di sbagli che si riescono a inanellare da autodidatta.

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Gli errori servono tantissimo. Come servono le letture che divoro, avido di tecnica, quantomeno teorica, per ora.

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Ormai la Leica è la mia compagna di vita e condivide attimi, soprattutto di notte, segnando i passi del mio cammino.

“…sto ore a guardarmi le dia, come dire che sto ore a guardarmi momenti…e quei momenti mi parlano attraverso la celluloide della pellicola, si fermano in punti di colore, hanno sembianze di volti, di paesaggi urbani, di differenze fra luci e ombre…”

dal mio diario del ’76

E’ con me sotto le armi, mi sta appesa alla spalla a passeggio di notte ed è soprattutto la stampella nei momenti maldigeriti di un percorso da giovane manager insoddisfatto di fine anni’70.

Mi prendo sul serio solo quando guardo attraverso un apparecchio fotografico, mi sento vivo e realizzato, anche se solo in parte.

Infatti, l’idea affascinante di passare al professionismo non è cosa.

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Il tipo di famiglia nella quale sono cresciuto non lascia spazio a questo genere di sogni: “…tu pensa a lavorare e basta…”, mi sento ripetere di continuo, quasi che essere Fotografo fosse una situazione svilente o addirittura della quale vergognarsi, e il produrre immagini cosa inaccettabile e soprattutto inutile, “…da fannulloni…” come sentenziava mio padre che, evidentemente aveva un concetto tutto suo riguardo questa professione.

Accetto quindi la situazione così com’è: ho ventitré anni, sono sposato e fra poco nascerà Martino. Sento forte la responsabilità del mio stato e non voglio deludere mio padre, figura imponente, dal carattere tutt’altro che facile e psicologicamente preponderante.

Questa consapevolezza però, se da una parte si dimostra limitante e frustrante sotto il profilo mentale, dall’altra lavora come un martello pneumatico e scava solchi che solo la fotografia riesce a colmare. Mi ripete di continuo “…non mi lasciare, fallo per te e per la tua salute psicofisica…”

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“…NON MI LASCIARE, FALLO PER TE E PER LA TUA SALUTE PSICOFISICA…”

Vesto il vestito serio e scuro, la cravatta ben annodata, le scarpe lucide.

La Leica sbatacchia contro le costole sotto la giacca o si nasconde furtiva nella cartella dei documenti; le persone in ufficio probabilmente mi considerano appena un po’ eccentrico, ma non è tanto drammatico e in pochissimo tempo la cosa diviene normale routine.

SPERANDO, UN GIORNO, DI POTERLA CONOSCERE DI PERSONA

Milano, febbraio 1982.
Ho il calendario di Milanofiori fra le mani e stento ancora a credere di averlo fatto io.

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Sfoglio avanti indietro le pagine verticali, mi ci tuffo dentro, ricordo gli attimi di quando l’otturatore della Nikon ha scattato. Cambierei qualcosa – come sempre – ma sono soddisfatto, mi piace davvero.

Antefatto: qualche mese prima, era stato affidato il compito di creare delle immagini per il suddetto calendario a David Lees, un famoso fotografo di LIFE, maestro di quella che oggi – nel 2021-, chiamiamo Street Photography, ma che allora era Reportage e basta.
Seguo in veste di accompagnatore per un paio di ore il Maestro che gira fra i palazzi di cristallo, e cerco di capire come un “grande” della fotografia affronta un impegno sul campo.
Milanofiori era il luogo dove vivevo la maggior parte della mia vita e avevo stabilito un legame profondo con le luci che colpivano le facciate argentate, i colori vivaci degli spigoli, le prospettive sovrapposte delle costruzioni che si fondevano con le campagne della periferia milanese.
Quando sul tavolo luminoso dell’agenzia di pubblicità Lombard appaiono le foto di Lees, rimango silenzioso e penso di non potermi permettere di criticare la visione di un professionista del suo calibro.
I dubbi però restano.
Quello che mi ripetevo era che uno di noi due, di quel luogo, non aveva capito un bel niente.
La domenica seguente la passo fra i palazzi osservando e interiorizzando con un fine ben preciso, e durante la settimana tengo la borsa pronta in ufficio sotto la scrivania.
Ogni tanto, quando la luce si fa bella, mi precipito fuori inventando scuse e faccio uno o due scatti.
Senza dire niente a nessuno.
Pochi giorni dopo ho le dia nel proiettore e ci passo la notte a guardarle sullo schermo di casa.
Alla riunione che doveva stabilire quali delle immagini di Lees avrebbero dovuto abbinare quali mesi dell’anno, estraggo con timidezza il mio “lavoro” e lo appoggio sul tavolo.
Sempre senza dire niente.
Imbarazzo generale.
Finale scontato, ne ero troppo sicuro.

Ma torniamo a febbraio, a un calendario d’immagini architettoniche molto colorate, e a me che verso le sei del pomeriggio di sabato attraverso Foro Buonaparte e vado in via Brera alla Galleria Il Diaframma.

La mostra di Joan Fontcuberta è magnifica, ma non me la godo – tanto è il groppo che ho in gola e lo stomaco strizzato come un cencio -, il calendario arrotolato sotto il braccio mi ricorda che sono lì per lasciarlo all’attenzione di Lanfranco Colombo, proprietario di quel luogo che per me rappresenta l’incontro con l’unica forma espressiva che sento mia nel profondo.

Lucilla è bellissima, distaccata, eterea, da mettere in imbarazzo.

Non è solo la responsabile della Galleria, ma anche l’assistente dell’Eminenza Grigia della Fotografia in Italia.

Mi faccio coraggio e le porgo il manufatto con un bigliettino allegato, con la preghiera, se possibile, di consegnarlo -con tutto comodo-, al signor Colombo.

Sul bigliettino avevo scarabocchiato “…sperando, un giorno, di poterla conoscere di persona…”.

Numero di telefono di casa. Giovanni Cabassi.

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Succede questo: dalla Galleria a casa ci impiego dieci minuti a piedi.

Tre per salire le scale, uno per aprire la porta e togliermi il cappotto.

Suona il telefono, è Lucilla che mi chiede se ho la possibilità di fare un salto in Galleria al più presto che il signor Colombo mi vuole vedere.

Per la seconda volta, quel pomeriggio, scendo le scale che mi portano al piano interrato del Diaframma, ho la gola secca, e la sensazione che qualcosa di terribile e meraviglioso allo stesso tempo stia per succedere.

L’ufficio è piccolo e ingombro di carte. Lanfranco è seduto su una sedia e Giuliana Traverso (addirittura lei!!), sull’unica altra disponibile. Rimango in piedi sulla porta e li ascolto terminare un discorso fiume che non capisco: hanno punti di vista differenti, questo lo colgo.

Il quarto d’ora successivo è un fiume in piena che sfonda argini, sbatte contro ricordi del passato della mia famiglia, i miei genitori e i miei nonni, Santa Margherita di quando io non ero ancora nato, finché Giuliana non interrompe il flusso torrenziale inarrestabile e, guardando secca Lanfranco, gli ricorda che io sono lì per parlare delle foto del Calendario.

Sta organizzando una colossale mostra in Cina, il Colombo: “L’Italia degli Italiani” e vorrebbe che io gli facessi stampare due delle foto del calendario per l’evento.

Sono le otto di sera, tornato a casa in uno stato di massima euforia alzo il telefono e chiamo mio padre, gli racconto tutto quanto e ricevo la seguente risposta: “…bene…bravo, perché non ci vai anche tu in Cina?…”. Inaspettato contropiede, mai e poi mai me lo sarei immaginato!

“…BENE…BRAVO, PERCHÉ NON CI VAI ANCHE TU IN CINA?…”

IN CINA, MARZO 1982

Le campagne intorno a Guilin sono solcate da fiumi e puntellate di panettoni di roccia, mi arrampico come una scimmia sulla sommità di questa strana collina e dalla cima piatta vedo la costruzione irreale dell’albergo, Lanfranco che esce a consumare milioni di diapositive, Giorgio Lotti intento a realizzare uno dei suoi grandi reportage, Giuliana Traverso che ogni volta che punta la macchina m’insegna qualcosa. In silenzio. La più bella esperienza, così inaspettata e così desiderata, provoca cambiamenti che allora non sapevo capire.

Lo capisco di colpo un paio di anni dopo: parecchie mostre, la vita che cambia, Lanfranco sempre vicino che incoraggia, la fotografia che grazie a lui e a Giuliana diventa la mia vita.

Di ritorno dalla Cina, in aereo esattamente quarant’anni fa, scrivevo sul mio taccuino: “… e grazie a te Lanfranco, grazie Cesira, grazie Capo, grazie compagno, e che tu possa per tutti i secoli correre così di fronte a un bimbo, con lo stesso entusiasmo, la stessa dolcezza e la stessa maturità.

Si è riso, ed è stato bello e non si dimenticherà, così non dimenticherò io, la felicità di poter stare con te che troppo ricordi al mio cuore una persona per la quale, oggi, darei la vita per un’ora di tempo insieme. Grazie per sempre.

E grazie Giorgio, il mio Giurgìn, grazie maestro per i consigli tecnici e grazie amico per quelli pratici e per essere sincero e chiaro come il mare che entrambe tanto amiamo.

A Giuliana l’ultimo ringraziamento, da coetanei, con una pacca sulla spalla e un bacio profondo di stima, ammirazione, fiducia, incoraggiamento, Amore. Spero che un giorno possa diventare un tuo diritto quello di frugare fra i miei flash, fra le mie sensazioni, i miei momenti. E vorrei che per sempre tu possa rimanere la cinquantenne di diciotto anni, col sorriso dei quattordici e le voglie dei sette e mezzo…”

Innanzitutto mi sentivo professionalmente inadeguato (e come avrebbe potuto essere altrimenti?), confrontandomi con il trio Colombo Lotti Traverso.

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Ora, se da una parte mi ritenevo davvero fortunato per tutta una serie di coincidenze (che poi tali non sono perché è semplicemente lo scorrere della nostra vita, indirizzata solo e unicamente da noi), una bella matassa di nodi mentali questo viaggio l’aveva aggrovigliata eccome!

Innanzitutto mi sentivo professionalmente inadeguato (e come avrebbe potuto essere altrimenti?), confrontandomi con il trio Colombo Lotti Traverso.

Certe mattine mi svegliavo prestissimo e agitato, guardavo Giorgio Lotti, mio compagno di stanza dormire serafico, e mi domandavo come diavolo facesse.

Non riuscivo a ritrovare in quei luoghi quello che credevo fosse il mio modo di fotografare, ammesso che ne avessi davvero uno.

Non c’erano limitazioni, potevo fare ciò che volevo e a tutta questa libertà non ero abituato.

In più non c’erano città moderne, niente luci al neon, le persone erano vestite tutte uguali e un po’ tristi; insomma implodevo dentro un mucchio di scuse perché non mi ritrovavo e mi sembrava di sprecare una incredibile opportunità.

Niente di più sbagliato: semplicemente per trovare la propria strada c’è bisogno di affrontare percorsi di crescita che a volte tengono l’anima appesa e la fanno sballottare di qui e di là, finché il vento che solleva la polvere non si quieta (ma smetterà mai di soffiare?), e il sentiero torna a essere visibile.

Di sicuro la Cina del 1982 mi ha fatto scoprire, quantomeno, che l’approccio al Reportage non è affatto semplice e tutt’altro che casuale; bisogna avere un’idea ben precisa e seguirla perché le immagini non saltano dentro alla Nikon per caso, ma bisogna essere attenti osservatori e veloci realizzatori.

Col senno di poi, avessi la possibilità tornare indietro al 1982, saprei di certo cosa fare…

® copyright Giorgio Lotti

L’approccio al Reportage non è affatto semplice e tutt’altro che casuale; bisogna avere un’idea ben precisa e seguirla perché le immagini non saltano dentro alla Nikon per caso.

  • ® copyright Giorgio Lotti

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  • ® copyright Giorgio Lotti

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DALLA CINA ALL’OLANDA

“…te la do io l’Olanda…non ti sembra di esagerare?…”

Da Pechino ad Amsterdam il passo è breve.

Non facciamo in tempo ad atterrare a Linate che già Lanfranco mi aveva ASSOLUTAMENTE coinvolto nel progetto “Italian Photographers meet Flowers” al quale non potevo mancare in nessun modo. In fondo si trattava solo di una settimana in mezzo ai tulipani…e in compagnia di alcuni fra i più importanti fotografi italiani.

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–“…te la do io l’Olanda…non ti sembra di esagerare?…”– la risposta piuttosto chiara e diretta di papà non ammetteva risposte.

Ok, se io non posso andare in Olanda a fotografare i fiori, i fiori vengono a Milano e li fotografo come dico io. Di domenica naturalmente.

Non potevo farmi sfuggire l’occasione di confrontarmi con Franco Fontana, Francesco Radino, Giorgio Lotti, Ezio Frea, la mia Giuliana Traverso e ancora Manfredi Bellati ed Enzo Nocera, Arno Hammacher, Luciano Ricci e naturalmente Lanfranco.

ANIMALI METROPOLITANI

New York, 3 agosto 1983. Poco prima di rientrare a casa dopo sette mesi americani.

Dai miei appunti dell’epoca:

“…le parole e le immagini che riguardano New York sono infinite.

 A me pareva di essere stato mandato qui quasi per sfida, un tipo di verifica sul campo per scoprire se tutto quanto, comprese le impressioni lasciate da un paio di brevissimi soggiorni precedenti, rispondeva all’immagine che nella testa si era andata formando attraverso la valanga di materiale già realizzato in materia.

 Viverci è stata una risposta – “La Risposta”-.

Naturalmente è tutto opinabile, dichiaratamente soggettivo, prodotto di una mentalità europea trapiantata fra grattacieli e grandi strade perpendicolari intrise di personaggi, colori e suoni da telefilm.

“Le parole e le immagini che riguardano New York sono infinite.”

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Comunque ho dovuto starci anch’io, accompagnato dagli umani problemi di esperienze lavorative, giovane famiglia al seguito e necessità di rapido ambientamento.

Il problema quindi, fin dall’inizio, stava nell’affrontare la “Capitale del Mondo” con un giusto senso di critica e una certa sensibilità, oppure farsi travolgere e trasportare lungo schemi variamente pubblicizzati, godendo l’effetto effimero che ne poteva sortire.

 La contraddizione si è creata col tempo che è scorso attraverso tre stagioni; più la vivevo e la conoscevo, più andavano naturalmente a sfatarsi dei miti, in parte indotti e in parte auto costruiti.

Moriva quindi con la fine di marzo l’idea di New York spietata e violenta, in aprile il caos e le frenesie cittadine erano ridotti in briciole, maggio passava e con lui erano distrutti tutti gli attributi di metropoli schiaccia-personalità e annulla-popoli.

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Giugno e luglio infine, per gustare la gioia di scoperte così genuine.

 Forse voleva farsi ricordare, e non lo doveva compiere in modo duro, bensì restituire, seppure all’americana, un soffio di dolcezza profonda, e tutto stava nel saperla prendere a dovere.

 Per mia fortuna il lavoro presso JCPenney ha lasciato spazi abbastanza ampi da permettermi il regolare svolgimento di un peregrinaggio meticoloso compiuto a tappeto e durato più di sei mesi, dal famigerato Bronx all’appendice ultima di Downtown.

 Naturalmente prendendo fotografie.

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E’ la vigilia del rientro; ed è giunto il momento della verifica visiva del lavoro svolto.

Si tratta di porre un determinato ordine fra argomenti che abbiano fra loro una qualche attinenza.

Mi rendo conto che ne è uscito uno in particolare che accomuna diverse tipologie di soggetti: unico comune denominatore è la caratteristica animale che assimila persone, oggetti e materiali fra i più disparati e vari.

Tanto forte è questo legame che difficilmente oggi mi riesce di capire se siano stati gli uomini ad entrare di violenza in un mondo inanimato che li circondava o gli oggetti che, plasmati dagli umani per funzioni specifiche, si son presi una sacrosanta rivincita rivendicando con coraggio una posizione in un rango superiore da quello assegnato.

Ormai il miscuglio è compiuto; il lampione a tre occhi convive placido con una statua mezzobusto e in una vetrina acquario, pesci di tempera osservano passanti inguainate in collant a ghirigori asiatici.

Forse è questa una delle vite di New York, assolutamente vivibile, piacevole, tranquilla a volte come un paesino di provincia nel quale, durante la festa del patrono, i botti pirotecnici fanno pensare tanto di essere in America…”

Animali Metropolitani è finita un po’ dappertutto nel corso degli anni seguenti: dal mio primo book, appesa nelle vetrine della Rinascente a Milano, pubblicata da diverse riviste, fin negli archivi dell’Action Press.

Ma questa è un’altra storia…

IL PRIMO BOOK NON SI SCORDA MAI

Avevo preso una decisione covata da almeno una quindicina d’anni: essere quel che ero, un fotografo.

Ero uscito per l’ultima volta dagli uffici della Rinascente lanciando in aria la cartella di cuoio martellato che mi aveva accompagnato per anni.
La mia vita da manager rinchiusa là dentro aveva preso il volo ed era ricaduta alle mie spalle.
Era il 1984 e iniziava la rivoluzione totale della mia esistenza, un salto nel vuoto senza che vedessi dove avrei potuto atterrare.
Bastava non guardare giù, e dirigersi invece in via Cicco Simonetta dove venivano stampati i Cibachrome come in nessun altro laboratorio in Italia.
Quindi, via verso una famosa legatoria di via Palermo per il contenitore: un pesante album con la costa di pelle beige e copertine rigide ricoperte di carta marmorizzata con un bel mélange di toni grigi e rossi.
Fra le mie mani tenevo l’esatto contrario dei tradizionali book serissimi e neri che erano la moda del momento: molto chic e professionali, ma tutti uguali e con pochissima personalità nel presentarsi.
Avevo le foto, sgargianti e colorate: erano quelle di Milanofiori e dei miei Animali Metropolitani.
Incrociando le dita forse potevano bastare…
Avevo un mattone di quarantadue per quarantadue spesso otto centimetri che conteneva ciò che – speravo – sarebbe piaciuto al punto da procurarmi campagne pubblicitarie, viaggi di lavoro avventurosi, linfa quotidiana per lo studio che, di lì a poco, avrei senz’altro aperto.
Di commerciale quelle foto avevano ben poco, ma si rivelarono presto fonti d’idee per i vivaci direttori creativi delle importanti agenzie di pubblicità milanesi che (giuro è successo davvero), in almeno tre occasioni non si fecero scrupolo alcuno nello staccare le foto per tenersele come ricordo.
Oggi lo guardo con tenerezza, rosato macigno che spunta dalla libreria, e mi ricorda tanto ma tanto un album di matrimonio.
Quello delle mie nozze con la fotografia professionale.
Ma a modo mio.

“…CERTO CHE HO LO STUDIO E CERTO CHE SÌ, POSSO FARE IL LAVORO DA DOMANI…”

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Il caso esiste?

Vado a salutare un po’ di persone dopo le mie dimissioni, dai piani alti di via Carlo Erba fin giù nel seminterrato dove c’era il reparto pubblicità della Upim. “…e cosa vai a fare adesso?…torni a lavorare con tuo padre?… come il fotografo?… ma non è possibile!… fai still life? Davvero….??? Ascolta, noi siamo nelle peste, ci ha appena avvisato il nostro fotografo che è malatissimo, dobbiamo andare in televisione con una dozzina di nostri prodotti, da Mike Bongiorno…sai? Non potresti darci una mano? Questo è il budget (per poco non svengo), dimmi dove hai lo studio che ti mandiamo tutto… mi raccomando, è più che urgentissimo!!”.
Questo era il segno del destino che si palesava in modo inequivocabile.
Ancora non avevo dismesso l’abito grigio in grisaglia, non avevo una ragione sociale né una partita iva, figuriamoci uno studio..!
“…Certo che ho lo studio e certo che sì, posso fare il lavoro da domani, ecco l’indirizzo dove consegnare la merce…”.

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Tempo di raggiungere la prima cabina telefonica al di fuori del palazzo, chiamo Sergio Caffini, un amico fotografo industriale che lo studio l’aveva, ma il lavoro in quel periodo un po’ meno.
“ Sergio, dico io, bisogna fare dodici still life per la televisione, domattina ti arrivano gli scatoloni, il budget è di dodici milioni più spese più iva, tu devi solo piazzare la tua Fatif 4×5, accendere un flash e al resto ci penso io. Fifty-Fifty ti va bene?”
Adesso per poco non sviene lui.
Dieci giorni dopo il lavoro è sugli schermi degli italiani insieme a Mike Bongiorno.

La mia vita professionale nasceva così, quasi fortuitamente e allo stesso tempo così desiderata per almeno dieci anni di travaglio e con un parto praticamente indolore.
Un leggero prestito Artigiancassa da trenta milioni rimborsabili in cinque anni per l’acquisto dell’attrezzatura mi faceva sentire che anche il sistema economico aveva fiducia nel mio futuro.
Ora stava solo a me dimostrare che con le mie gambette potevo arrampicarmi, correre e saltare fossi.
La sera seguente al sabato delle dimissioni attendo mio padre, a casa sua, per dargli la notizia che il primo dei suoi figli non avrebbe seguito le sue orme, ma cercato la propria strada in altra maniera.
Era il 30 Settembre 1984, avevo 27 anni e la Forza era con me, anche se mi sentivo il più minuscolo dei guerrieri Jedi al cospetto del potentissimo Darth Fener.
“…senti papà, ci ho pensato bene e da tanto… premetto che non voglio niente, nessun aiuto economico… magari al mio compleanno mi regali due flash da studio…”
Già dell’incredibile essere riuscito a sbiascicare due frasi. “…devo prendere la mia vita in mano…ricostruirmi una famiglia…vivere la mia vita e sento che posso farcela…”
“…ma sei proprio sicuro?… guarda che alla Rinascente una scrivania non te la toglierebbe nessuno…!!”
Era commosso, sennò non avrebbe mai detto una frase del genere riguardo alla sicurezza del posto fisso, questo me lo ricordo, come sono indelebili quei cinque minuti di non – conversazione che sono stati sicuramente i primi (e pochissimi) davvero intimi di tutta la nostra, purtroppo breve, vita insieme.

UN GRANDE SPAZIO VUOTO E NERO DA RIEMPIRE DI IMMAGINI

In via Piranesi 10, all’interno della Frigoriferi Milanesi, c’era un grande spazio vuoto adibito, fino a una decina di anni prima, alla conservazione e stoccaggio delle uova e quindi abbandonato in attesa di riconversione.
Un rettangolo perfetto al piano di strada lungo ventisette, largo undici e alto sette metri, posizionato all’interno dell’enorme fabbricato. L’unica fonte di luce naturale e di areazione era il portone d’ingresso, di ferro e senza vetri. Abbiamo costruito un bagno, una camera oscura, un piccolo locale di sicurezza per le macchine fotografiche, uno spazio chiuso per l’attrezzatura da studio con un grande bancone da falegnameria e un ufficio.
Abbiamo dipinto tutto lo spazio restante di nero, da cima a fondo e anche il soffitto attraversato da enormi putrelle da carroponte.
Avevo un grande limbo e potevo fotografare, fra le altre cose, anche le motociclette che erano (e sono tutt’oggi), parte della mia vita.
Quel grande locale tutt’altro che accogliente non lasciava spazio alla distrazione; il giorno e la notte erano la stessa cosa, sempre buio pesto con spot qua e là che illuminavano i set di ripresa.

Il lavoro ferveva, ero entusiasta e non c’era giorno che non ringraziassi me stesso per una scelta così coraggiosa e definitiva.

Mio padre, che aveva gli uffici ai piani superiori, la mattina verso le sette e trenta passava e andavamo a prenderci un tè insieme, senza parlare, ma in quel silenzio ci stavano dentro un mucchio di frasi e di racconti, e stava finalmente nascendo quel briciolo di rapporto che cercavo tenacemente da ventotto anni…

I miei primi assistenti Francesco Di Loreto, Paolo Mazzo e Mimo Visconti: a turno o in coppia o “tutti sul pezzo”, si alternavano cercando di farmi capire come avrei dovuto manovrare correttamente un banco ottico; facile per loro che freschi di Istituto Europeo del Design, di tecnica ne sapevano ben più di me.

Con Qui Quo Qua, (detti anche i Tre Porcellini), e noti al mondo della fotografia sotto il nome di Famiglia 38 Fotografi (o più modernamente F38F), ho scoperto il piacere di condividere le forti emozioni di quell’universo nuovo che stavo andando a esplorare, dando qualcosa e ricevendo da loro in cambio moltissimo.

Nello studio di via Piranesi sono nate le prime campagne pubblicitarie per la Numero Uno, importatrice in Italia delle Harley Davidson, i cataloghi per Fontana Arte, quelli innovativi per la WP, la foto della campagna Sony Black Trinitron che ha vinto il Premio Printitalia di Confindustria 1988 per la foto pubblicitaria più bella dell’anno…tanto per citare e ricordare qualche lavoro che mi è rimasto nel cuore.

LA NUMERO UNO,
CARLO TALAMO
E UNA COMUNICAZIONE DIFFERENTE

Con Carlo c’è un rapporto di amicizia fraterna.
Io, primo di otto figli, non avevo sperimentato cosa volesse dire avere un fratello maggiore.
Complicato a volte, straordinariamente semplice altre, comunque sempre orientato verso un percorso interlocutorio di crescita basato sul continuo mettersi e mettere tutto ciò che ci circonda in costante discussione.
Approcci. Ribaltamento delle regole. Uscita dagli schemi e creazione di nuovi spazi di comunicazione fottendosene alla grande di quello che gli altri potrebbero pensare.
Non c’è stata mai e poi mai una strategia di marketing preconfezionata e basata su possibili gradimenti di ipotetici target.
C’è stata poesia.
C’è stato cuore.
Ci sono state immagini scattate e sensazioni riportate sulla carta.
Ci sono state provocazioni anche pesanti come la famosa pubblicità della Rolls-Royce sulla doppia pagina centrale dell’Unità.

Ci sono persone che hanno capito.
Ce ne sono altre che per manifesta invidia o totale mancanza di creatività e emotività hanno criticato per il puro gusto di farlo, urlando in modo inconsapevole false motivazioni di espedienti pubblicitari volti al puro fine di arricchirsi.
Giuro che non è mai stato così.
Se Carlo è riuscito come imprenditore lo si deve al suo incredibile senso pratico nella conduzione di un’impresa data da molti spacciata ben prima del suo inizio.
La forza e l’impegno profusi nella Numero Uno dopo anni di macerazione ideologica, pochissimi quattrini e frustrazione professionale, sono encomiabili.
Le campagne pubblicitarie le abbiamo decise dopo interminabili discussioni a notte fonda, quando la pizza divorata troppo in fretta faticava a compiere il suo percorso digestivo provocando acidità e insicurezza.
Noi eravamo l’agenzia, il direttore creativo, il copywriter, il grafico e il cliente.
Arrivava già stanco di tensione e costantemente in bilico emotivo, felice preoccupato confuso determinato incazzato entusiasta.
Lo conoscevo da troppo tempo per non sapere (quasi sempre), come prenderlo.
Provocava comunque sempre e di continuo, testava i tuoi limiti anche di sopportazione e metteva tutto insieme: affetto, professionalità, visioni, sbraiti e silenzi interminabili.
Oggi è portato come esempio di comunicazione.
Allora era solo il nostro modo espressivo portato sulle pagine di un giornale.

CILINDRI BULLONI & FACCE

Cilindri Bulloni & Facce si chiama così perché, con Carlo, è la prima cosa che ci è venuta in mente.
Buona la prima, non abbiamo neppure tentato di cercare un altro titolo che potesse condensare l’inizio di quello che sarebbe diventato, nel giro di un quinquennio, la celebrazione di un fenomeno di cultura motociclistica.
Quando gli americani dell’Harley ci hanno copiato a strettissimo giro, abbiamo capito che avevamo colpito nel segno e che era stato giusto comunicare la passione per le due ruote (e l’enorme bicilindrico che vive nel mezzo) attraverso gli occhi dei primi pionieri italiani di un marchio storico.
Nelle pagine del libro c’è di tutto.
Persone che la moto la vivono intensamente, altre che amano l’oggetto fine a sé stesso, altre ancora che la considerano uno status symbol irrinunciabile all’esaltazione del proprio ego.
Con alcuni ho condiviso strade e vita e asfalto e confidenze.
Altri li ho incrociati solo per la frazione di tempo che serve a fare click.
Alcuni non sono più fisicamente con noi, ma rimangono vivide le loro storie che hanno incrociato le nostre.
Ricordarli attraverso le fotografie di un vecchio libro in bianco e nero mi piace perché ogni volta che giro una pagina mi sembra di vederli impegnati sui tornanti, su verso il passo, mentre sognano un cappuccino caldo e l’affettuosità di un sorriso e di una pacca sulla spalla.

Introduzione al libro, 1987

SAN FRANCISCO, SETTEMBRE 1982.

Attraverso Union Street per la prima volta dopo il mio arrivo, è assolutamente californiana, dall’aria tersa alle architetture pulite e variopinte, dai colori sgargianti delle affissioni agli inusuali mezzi di trasporto, tipici dei telefilm, così più veri nella realtà di un mezzogiorno scintillante.

Un oggetto a due ruote mi passa accanto, elegante, maestoso, con quel borbottio dolce e profondo del quale oggi riconosco la musica a molti isolati di distanza.

È un mezzo completamente dipinto di rosso: rosso il telaio e rossa la carrozzeria, il motore, i foderi delle forcelle, i carter del motore; rossi sono i fili, la mascherina sul fanale, le marmitte e tubi di scarico e la pelle della sella.

È una Harley, la prima che vedo in carne ed ossa di questo modello. Una Sturgis con trazione a cinghia. Si ferma pochi metri avanti ed ho il tempo per guardarla e imprimerla nella memoria. Da quel giorno gli incontri con la rossa e un incredibile numero di sue parenti super cromate, iperpersonalizzate e stracolorate, diventano frequentissimi.

Col tempo imparo a riconoscere i modelli delle moto e dei loro proprietari. Questi ultimi sono divisi in due categorie predominanti: i Bay Riders vestiti di borchie, cuoio e catene, scorrazzano per la costa con frequenti prese di posizione alternative rispetto le leggi della California, e un secondo gruppo molto più tranquillo che si ritrova in un pub del centro; le motociclette sono bellissime e molto curate: è una competizione serrata per il disegno più bello sul serbatoio, per qualche etto di cromo in più. Per un appassionato motociclista italiano è come vivere con i propri sogni, ogni giorno un attimo di sospiri.

Vado ogni tanto da Dudley Perkins, il primo concessionario americano e osservo nuove cose.

Un piccolo mondo affascinante che trasuda leggenda da ogni riflesso del metallo lucido e ai muri colmi di foto dei “veterani”, si dischiude e attira come solo i begli oggetti sanno fare.

NEW YORK QUALCHE MESE PIU’ TARDI.

Una sera telefono a Milano a Carlo Talamo, amico e compagno di lunghi e piacevoli giri in moto.

Ha comperato una Sturgis. Nera, originale, nuovissima.

Il sogno prende corpo e diviene fenomeno potenzialmente affrontabile almeno sotto il profilo ideologico.

MILANO, SETTEMBRE 1983.

Carlo alza la serranda del nostro box officina ed è emozionante vederla spuntare dal buio, nera come la notte, misteriosa progenie di una leggenda arrivata dal Wisconsin fino a un sotterraneo milanese. Solo due cilindri, un design fatto con l’accetta, vibrazioni percepibili anche a motore spento, cilindrata impressionantemente alta.

Un miscuglio impossibile di antichità tecniche e affronti alla legge della fisica.

Ma è il più bell’ oggetto motociclistico mai prodotto.

PARIGI, MAGGIO 1985, SUPERRALLY FRANCE.

Svegliarsi la mattina in un campo di 3.500 Harley Davidson che, opache di rugiada, fanno la guardia alla tenda del loro artefice, è un’esperienza nuova. Fa capire in un istante come non potrebbe essere possibile che succedesse lo stesso in un Yamaha-raduno.

Non esiste una moto uguale all’altra: anche se nuovissime riflettono già lo spirito, l’estro e il carattere dei loro proprietari.

MILANO, OTTOBRE 1986.

Percorro 25.000 km in un paio d’anni in sella agli sfolgoranti mostri d’acciaio, partecipo a due Superrally, i raduni di Marca più importanti d’Europa e lì fotografo facce, disegni, cromature, strani telai lunghi due metri, brutti tipi ubriachi e strane tipe arrivate chissà da dove a bordo di Choppers inguidabili. Vivo qualche giorno diverso dai soliti poi torno a casa e comincio a pensare a una liaison fra moto e fotografia. Nel frattempo fotografo le motociclette per le campagne pubblicitarie della Numero Uno, la società che importa le Harley in Italia.

Il tipo di veicolo si presta in modo superbo e la mancanza di layout lascia grande spazio alla fantasia; le foto sono belle, le campagne vivaci e nuove.

Nel giro di due anni il gruppo di appassionati si allarga e ci si raduna in motorizzata comitiva, si conosce gente nuova ma con la stessa passione ed è piacevole stare insieme per raccontare di pistoni e fregi e cromi e mezze frasi di lavoro e mezze di divertimento. Poi con Carlo nell’ottobre ’86 prendendo spunto da alcune foto in bianco e nero scattate a Liliana, sua moglie, a fianco sopra di dietro e davanti ad un’ Electra Glide per la copertina di un mensile, elaboriamo un’idea di ritratti di gente e moto. Ne parliamo a lungo, facciamo molte prove, poi invitiamo. Arrivano con voglia, da soli e con le mogli, fidanzate, cani, caschi e giubbotti, borchie e papillon, moto fantastiche, cromie splendenti, un mondo così particolare!

Connubio atavico uomo e cavallo, passione per l’acciaio, oggetto stupefacente. L’unico mezzo meccanico a due ruote che dia la possibilità di provare nel 2000 sensazioni da pionieri, accoppiando tecnica attuale al fascino di sempre delle belle cose dell’uomo. E’ di questi pionieri che avevo bisogno, e di queste moto. Nessuno è macho e ciò è fantastico: nessuno mostra lati finti del proprio carattere. Così sono e così vengono registrati sulla pellicola: un pizzico di timidezza, attimi di piacevole smarrimento, gusto della novità, piacere di stare un po’ insieme in maniera particolare. E facce di gente particolare, tutti un po’ artisti e poeti, gente che nonostante i consigli di amministrazione, le cambiali, i sacrifici e i salti mortali, riesce ancora a sognare e a creare con italica fantasia un mondo importato come la leggenda che orgogliosamente cavalcano.

FRAGILE
UNA STORIA DI VETRO

Mio figlio Matteo ha trentatré anni.

Uno dei fatti che mi ricordo e che, al tempo della realizzazione di questi scatti, gli stavano ancora spuntando i denti da latte. Ne fece le spese Luigi Camarilla che gli offrì una guancia chiedendogli un bacio, ma ottenendo in cambio un piccolo solco doloroso.

Era all’inizio dell’estate del 1989 e ci fermammo un paio di giorni in fondo l’Italia, dove la mia famiglia era in villeggiatura, per alcune di queste foto.

Mi avevano commissionato un sogno.

Nel senso che qualsiasi artigiano dell’immagine sogna, per tutta la vita, una riunione operativa per un nuovo lavoro nella quale la committenza presenta le seguenti linee guida:

Uno – che sia sul vetro. (La loro richiesta iniziale era: “…chessò, qualcosa tipo le vetrate della cattedrale di Chartres…”)

Due – fai quello che credi. (“…dovrà diventare una pubblicazione di gran pregio e di grandissimo formato, destinata a poche centinaia di fortunati…tipo Ministri…Grandi Industriali…deve essere semplice ma stupire al tempo stesso…”).

Il soggetto di tutte le fotografie è l’isolatore.
Lui passa la sua esistenza fra il cavo dell’alta tensione e il muro della cabina elettrica.
Misura 35 cm di diametro, pesa circa quattro chili. È solcato da onde che lo rinforzano. Quando l’ho visto, nella fabbrica del vetro, ho capito.
Era lui il testimone che cercavo. Manufatto industriale povero e bellissimo.
Una scultura senza volerlo, oggetto che ne racchiude tanti altri senza saperlo.
L’abbiamo affettato in due, quattro, otto, sedici e trentadue fette.
L’abbiamo usato intero.
Metà della vecchia Volvo era piena di scatole contenenti isolatori, e negli spazi liberi trovavano posto: la Deardorff 20 × 25 cm, macchina fotografica pieghevole da campo, in mogano, del ‘55 con un grandangolare Kodak Eastman da 190 mm. ,Paolo Mazzo per metà del viaggio e Francesco di Loreto per l’altra metà: aiuto fisico e morale.
Luigi Camarilla accomodato nel posto della suocera fungeva da agente provocatore, stimolatore sensoriale, Bastian contrario, compagno di voli onirici, nemico dell’ovvietà, seminatore di dubbi, scrutatore oltre la siepe, chansonnier e DJ.
Sconosciuto sempre meno con il passare dei chilometri, alla fine del viaggio è amico per la vita.
Il sottoscritto alla guida.

I LOVE WP

Quello schermo del cinema drive-in, abbandonato da chissà quanto tempo, ha riflesso chilometri di pellicola americana: resto in silenzio immaginando le dive del passato recitare ai bordi del deserto nell’ultima luce del tramonto.

Il leone di montagna balza dalla boscaglia fino al centro della strada e rimane immobile per qualche lunghissimo attimo, gli occhi enormi illuminati dai fari, poi con un grande unico salto ritorna da dov’era venuto.

Il viso di Ray, operaio della Pendleton, non cambia espressione per tutti i dieci scatti in un misto d’imbarazzato silenzio e prepotente fierezza.

Patrizio Spano viene arrestato all’uscita del supermercato quando sostituisce il suo trapano difettoso con uno nuovo di zecca; si giustifica incolpando il costruttore e io pago la cauzione con i 1.600 dollari che ci servono per mangiare. 

Il boa gigantesco di Karin che dalla sua teca di vetro, inghiottendo un topo bianco, ci osserva mentre accarezziamo un pappagallo cacatua che passeggia sul tronco della voliera posto in mezzo al salone infinito.

Joe indossa sempre cinque pistole prima di uscire da casa; in foto se ne vedono solo tre: le altre due sono infilate nella cintura dietro alla schiena.

Jennifer è una ragazza punk che dorme nella bara in camera sua; la madre la bacia prima di dormire e poi chiude il coperchio dotato di fori per il riciclo dell’aria. E buonanotte.

Quello schermo del cinema drive-in, abbandonato da chissà quanto tempo, ha riflesso chilometri di pellicola americana: resto in silenzio immaginando le dive del passato recitare ai bordi del deserto nell’ultima luce del tramonto.

L’ultimo campeggio in Pennsylvania, il 10 luglio, mentre riassumo a mente i due mesi di viaggio e osservo uno scoiattolo che saltando di ramo in ramo, precipita da un’altezza infinita, si schianta a pochi passi da me e nel giro di venti secondi si riprende ed è di nuovo in cima alle sequoie. Un po’ malconcio, ma vivo.

Mal d’altitudine a tremilatrecento metri d’altezza fotografando le montagne sacre degli Apache, degli Shoshoni, dei Pawnee; quaranta di febbre per due giorni causa probabile di un’insolazione. S’inizia bene.

Il branco di cervi con almeno duecento capi percorre l’autostrada per miglia e miglia; noi dietro in fila, a dieci all’ora da mezzanotte fino all’alba.

Troviamo uno scorcio carino con coccodrillo alle Everglades, è il tramonto e ho così tante zanzare addosso che non riesco a stare sotto il panno per mettere a fuoco. Giancarlo e Paolo ne spiaccicano a decine mentre mi succhiano il sangue dalla schiena.

Raymond ha un viso così bello e dolce, incorniciato dai capelli lunghi e dalla barba. Potrebbe interpretare Gesù in un film.

Per Susan sono semplicemente una preda del venerdì sera e vuole divertirsi; parliamo di rapporti veri e falsi fino alle quattro della mattina in un playground, poi mi lascia di fronte all’albergo. Ho saputo che non ha più cacciato durante i weekend, ma si è sposata e ha avuto un figlio.

Patrizio non valuta attentamente l’altezza della pensilina del benzinaio e il cassone del condizionatore dal tetto del camper precipita a terra finendo in mille pezzi.

Cathy ha appena ricevuto l’Oscar per i costumi di “Balla coi Lupi” e sa tutto degli indiani, credo voglia essere una di loro e ride del fatto che sua figlia è una punk.

Il camper di Patrizio parcheggiato a West Broadway vicino a un palazzo in costruzione: per i due anni a venire lì è rimasto; la corrente la prende collegandosi a un cavo che, con la complicità silenziosa di un operaio, penzola dalle impalcature. Nessuno l’ha mai fatto spostare se non nei giorni di pulizia delle strade.

Le scarpe abbandonate nei passaggi all’interno del Winnebago hanno alimentato discussioni accese fra Andrea e Paolo. Credo lo facesse apposta per provocare.

Abbiamo un cellulare Motorola portatile che pesa almeno quattro chili e che, tranne forse un paio di volte e per pochissimi istanti, non è mai riuscito a collegarci con l’Italia.

Il suono del serpente a sonagli mentre sei sotto al cappuccio per inquadrare un bellissimo cactus bianco è terrificante. Lo scatto più veloce che abbia mai fatto.

Le lenzuola gialle in sintetico del Gramercy Park Hotel di New York sono in sintonia col resto dell’arredamento che necessita urgentemente di una totale ristrutturazione. Anni dopo sono ancora così. Stessa stanza, stesse lampadine rotte, stessa doccia lacrimante.

James è un cercatore di cristalli che smuove con pacata attenzione cumuli di terra provenienti dalle miniere. Lo fotografiamo e poi rimaniamo con lui tutto il resto della giornata scavando alla ricerca di tesori.

“The sand is soft. Fifty dollars.” Queste le uniche parole pronunciate dall’autista del carro attrezzi che ci traina per ben cinque metri fuori dalla sabbia del deserto di Ocotillo. I camper Winnebago non sono mezzi adatti al fuoristrada.

Così diverso da un servizio fotografico programmato, percorrere quasi ottomila chilometri di strade a bordo di due vecchi camper Winnebago anni’70 per realizzare un catalogo di abbigliamento, complementi d’arredo e cura della persona, mi fa pensare che forse non tutte le rotelle siano al posto giusto. Guai a omologarsi, bisogna spingere invece sul pedale per inventare qualcosa che non c’è: come l’isola di Peter Pan, “I love WP” ribalta le prospettive e vola felice combattendo contro l’ombra del conformismo degli schemi modaioli del periodo.

Abbiamo fatto strada in tutti i sensi: fisicamente percorrendo l’America in lungo in largo e di traverso, e metaforicamente comunicando una filosofia legata al commercio di marchi famosi come non era mai stato concepito prima.

Pionieri a volte un po’ maldestri nell’approccio, eravamo invece leoni che domavano le onde su tavole da surf stabili e sicure quando si trattava di proteggere e affermare questo nuovo metodo di visualizzazione.

Abbiamo trovato lungo la strada i nostri attori, abbiamo raccontato loro chi eravamo e cosa eravamo lì a fare, abbiamo raccolto le loro storie (a volte confessioni e intimità), e le abbiamo messe con cura all’interno di un cestino intrecciato a mano riportandole in Italia.

Se penso a quante modelle o modelli professionisti ho fotografato negli anni e mi sforzo di ricordare con quali di loro ho avuto uno scambio che non fosse legato unicamente al gesto di produrre un’immagine, credo di non sbagliare dicendo nessuno.

La convinzione sullo scambio di emozioni personali che s’instaura fra la “gente comune” e il fotografo, suffragata dai positivi risultati che il Catalogo I LOVE WP ha avuto a fine anni ’80, mi ha dato ragione.

Interpreti e protagonisti di quest’alternativa avventura mediatica che non dimenticherò mai:

Patrizio Spano, fuggito dall’Italia negli anni ’60 per non adempiere all’obbligo del servizio militare; il nostro Scout.

Giancarlo Cei, inarrestabile ricercatore di vita e stili ed emozioni.

Antonio Mastrorocco, direttore creativo dell’Ago Alcuni Giovani Occidentali, entusiasta, coraggioso e accondiscendente.

I miei assistenti Paolo Mazzo e Mimo Visconti alla loro prima e vera esperienza sul campo dell’ignoto.

I due vecchi camper Winnebago Brave che hanno concluso con noi il loro lungo cammino.

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CONTINUA…

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